mercoledì 20 dicembre 2017

Il giorno dello Chagall

di Giorgio Abonante
 Che cosa sia davvero un progetto culturale è un tema su cui si è dibattuto, troppo poco forse, in campagna elettorale. Vero è che nessuno su questi argomenti può vendere verità assolute, ma altrettanto vero è che un senso a quello che si fa dovrebbe essere sempre dettato. Almeno abbozzato. Non voglio addentrarmi nelle diverse letture che nella storia sono state date al rapporto cultura/economia. Tuttavia sarebbe bene che si tornasse a parlare di questi temi, nella nostra città, anche correndo il rischio di apparire noiosi o fuori dal mondo, anche se nel mondo in realtà di queste cose si discute eccome. Con il risultato poi di avere meno ragioni di stracciarsi le vesti di fronte agli eventuali tristi destini di marchi storici tradizionali. Con responsabilità per tutti, nessuno escluso.
Cultura ed economia sono legate. Ma, più la cultura è in grado di rendersi autonoma e indipendente, di legarsi alle vocazioni territoriali per esaltarle, rinnovarle, cambiarle anche, più il processo di crescita della comunità di riferimento ne trae benefici, anche in termini di sviluppo complessivo del tessuto sociale ed economico.
Di queste cose non parliamo mai, forse se ne parlava una volta, non lo so. Certo è che da altre parti si ragiona su questi temi. Se a Pavia hanno organizzato I Longobardi un motivo c’è e l’hanno analizzato e dibattuto in tre anni di lavoro prima di offrire una mostra che ha avuto un successo straordinario ricollocando la città nel panorama culturale e turistico non solo del nord Italia. Se in Sardegna lavorano da anni sulla civiltà nuragica e sul Mediterraneo come snodo di popoli e culture anche qui un altro motivo c’è, e sta nella necessità di uscire dall’isolamento, riaffermare un’identità culturale e aprirla ad una dimensione ampia di rapporti che supera i confini nazionali. Partire da quel che si ha per affermare qualcosa di diverso, per aggiungere valore, per determinare un posizionamento delle città, una rete di relazioni urbane ed extraurbane, una proposta che offra prospettiva sia in termini di coscienza collettiva che di rilancio sociale ed economico del territorio.
Spiegateci per favore il senso di Chagall ad Alessandria, dello sfacciato sponsor Iren, di questo essere periferici a tutto, addirittura ad Acqui Terme (con tutto il rispetto per Acqui alla quale dovremmo legarci ma con progetti di respiro profondo), spiegateci il nesso fra le vocazioni alessandrine e Chagall, diteci qualcosa per favore.
Tardivamente, ragionammo con i direttori dei musei italiani (e non solo) dedicati al tessile sulla prospettiva del Museo Borsalino e sui legami possibili con la moda italiana oggi, sugli interessi convergenti fra marchio, giovani stilisti, oro di Valenza, filiera del lusso, tema complesso e tutto da verificare sotto molti punti di vista. Era aprile 2017. Era campagna elettorale? Forse anche. Ma esprimeva la necessità di iniziare a scrivere un progetto di lungo periodo per una città che se continua a ragionare al ribasso è destinata a perdere ulteriori posizioni. Nessuno incolpa nessuno sulla vicenda Borsalino, sia chiaro, non voglio strumentalizzazioni, né in un senso, né nell’altro. Vale come esempio. Ma se vogliamo invertire la rotta ed evitare di soffrire di altre situazioni simili occorre svegliarsi. Tutti, ad ogni livello istituzionale, parlamentari compresi, noi idem, io compreso.
E questo è pure il senso del nostro voto contrario sul Documento Unico di Programmazione proposto dalla Giunta ieri in consiglio comunale. Un documento in cui non c’è l’ordine di priorità, in cui non si percepisce un’anima. In cui non c’è un disegno su come riconnettere Alessandria ai corridoi territoriali che contano. A colpi di “normalizzazione”, termine di moda a Palazzo Rosso, non si va distanti. E lo diciamo noi che siamo stati costretti e abbiamo scelto di lavorare cinque anni per riportare normalità da quelle parti. E abbiamo perso. Lo diremo fino alla noia ai “normalizzatori” di Palazzo Rosso: ragioniamo assieme su un progetto di prospettiva, noi siamo a disposizione. Non alle condizioni che ci avete offerto in questi confusi sei mesi.